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Il paese della mia altra infanzia

Il paese della mia altra infanzia
di Elvira Kamenschikova
Traduzione a cura di Vynohradska Bohdana 

 

Sono venuta a conoscenza di questa terra del Nord d'Italia mediante  i documenti, le foto e   gli elenchi dei lavoratori che avevano  partecipato alla costruzione della ferrovia del Krugobajkal nonché i nomi dei loro villaggi di provenienza per la Siberia. Ho saputo inoltre di questo Paese tramite i racconti di coloro che hanno legato per sempre  il destino con la Russia.

Tempo addietro, per due volte sono stata a Venezia e ritornata in Austria  passando  in treno vicino alle Alpi. Allora non avrei immaginato che sarei tornata in prima persona a rivedere quelle stazioni, in particolare quella di Gemona, dalle quali più di cent’anni fa i cittadini friulani iniziavano il loro lungo percorso per la Siberia e, inoltre, non avrei pensato di passeggiare per le vie gemonesi col vice sindaco di Buja Stefano Bergagna, col direttore della biblioteca Loredana Bortolotti e con un discendente di uno degli italiani in Siberia, Romano Rodaro.

Credo di non offendere nessuno affermando che coloro che hanno partecipato alla costruzione della  Transiberiana e dedicato quasi 30 anni della loro vita alla Siberia possano essere chiamati “italiani siberiani”: essi appartengono tanto all’Italia quanto alla Russia.

Passeggiando per Gemona, ho ammirato la gigantesca figura di San Cristoforo sulla facciata del Duomo: un santo recante sulla spalla il Bambino Gesù.

Questa Regione si chiama Friuli anzi, per essere precisi, Friuli-Venezia Giulia  il cui nome racchiude la storia dei secoli passati: dal presidio di Giulio Cesare al dominio di Venezia.

E così accadde che all’inizio dell’ottobre 2008 venni in Friuli e fu la prima volta, anche se già avevo avuto modo di scrivere due libri riguardo coloro che un tempo avevano lavorato in Siberia. Di solito ero venuta in Italia attraverso l’Austria, questa volta lo feci direttamente da Mosca, passando per l’aeroporto Marco Polo di Venezia.

Era una bellissima giornata di sole, l’aereo stava sorvolando le acque cristalline della laguna dal fondo verde scuro e nei punti meno profondi si intravedeva la sabbia brillare. Tutto era insolito. Sorse in me un nuovo senso dell’Italia e la sensazione di scoprirla.

All’aeroporto mi stava attendendo il professore di Lingua e Letteratura Italiana di Gemona Angelo Floramo  che, nel nostro scambio epistolare precedente il mio arrivo, mi aveva chiesto come avrebbe fatto a riconoscermi non avendomi mai vista. In quella occasione gli risposi di cercare una “signora in blu”… e lui mi rispose con entusiasmo:… “ma allora dovrò cercare la Fata Turchina”… e fu così che mi trovò senza problemi.

Per arrivare a destinazione bisognava percorrere più di cento chilometri allontanandosi da Venezia verso nord, viaggiando in autostrada immersi in un traffico  di  auto e camion; il viaggio era  perfetto per esplorare il paese.

Angelo non parlava russo ma solo un po’ di sloveno ed è stata una sorpresa inattesa quando, guidando la macchina, all’improvviso cominciò a cantare una canzone popolare russa: “vecchio acero, vecchio acero…” non c’è nulla di meglio al mondo che stabilire un ponte di comunicazione e fiducia attraverso una canzone!

Cosa era successo…? Avevo trovato in Italia un amico su cui contare. Mi preoccupava viaggiare in Italia in luoghi che non conoscevo e pensavo di non riuscire a farcela senza amici, ma Angelo era una persona del posto su cui si poteva contare.

Per prima cosa ci siamo diretti a Pordenone da Antonia Comis Dominco, specializzata in lingua russa ed amante della Russia.

Vorrei però iniziare raccontando ciò che mi ha impressionata in modo indelebile, anche se questo è successo prima del mio ritorno. Un episodio che non riesco a dimenticare.

Il 19 ottobre sono stata invitata a Buja (Ud) dove si teneva una festa. Romano Rodaro aveva reso speciale quella festa portando da Parigi, come aveva già fatto senza fatica attraversando mezzo mondo, due bandiere russe, un samovar (importato della Siberia all’inizio del secolo scorso) ed un pezzo di rotaia proveniente dal Krugobajkal.

Prima dell’inizio della festa andammo in cima alla collina sulle cui pendici è situata Buja. Visitammo la chiesa di epoca romana dedicata a San Lorenzo, con gli affreschi ben conservati, e poi il mio accompagnatore, Egidio Tessaro, mi portò verso il muro che circonda la chiesa. Davanti a me si aprì una enorme valle delimitata da case che sembravano minuscole. Sul lato opposto torreggiavano le montagne, fino alla  metà alberate e più su rocciose, che avevano un’aria molto severa ed anche un po’ minacciosa. A quel punto Egidio Tessaro disse: “ecco guarda a destra Artegna, Magnano in Riviera, a sinistra Osoppo, davanti a noi Gemona, più su Montenars”… lo guardai stupita pensando scherzasse. Improvvisamente, come in un sogno, mi comparvero davanti paesini che conoscevo già da vent’anni, da quando iniziai a raccogliere il materiale relativo al lavoro degli Italiani nella costruzione della Transiberiana. Da qui partirono quegli uomini, con il bagaglio sulle spalle, per raggiungere la stazione di Gemona  e poi a piedi, sui carri e con le slitte impiegando quasi un mese di viaggio, verso un paese sconosciuto dove già viaggiavano i treni…

Nel contemplare la valle c’era qualche cosa di mistico, mi sembrò di aver acquisito la seconda Patria che pensavo perduta.

Da Pordenone nessuno partecipò alla costruzione della Transsiberiana, però tale esperienza la vive sulla propria pelle una persona nata nella mia città  Cita;  si può dire un mio paesano.

Sto parlando  di Antonio Lenarduzzi, il cui nonno Luigi partì con i primi operai, lasciando il figlio coi nonni a Pinzano al Tagliamento. Nel leggere tutto il materiale raccolto, mi sembrava che con lui ci fosse anche il fratello Giovanni che, dopo la morte di Luigi, tornò a casa con la famiglia piuttosto numerosa.

Quando ci incontrammo con Antonio, un ex carabiniere in pensione, chiamò Luigi “nonno” e disse che ricordava anche il funerale, “…come nonno?” rimasi stupita nel sentire ciò poiché sapevo che lui aveva solo due figli, Francesco ed Emma entrambi nati a  Irkutsk.

Solo dopo la nascita di Francesco, Luigi si trasferì con la famiglia a Cita.. non mi ricordavo che Giovanni Lenarduzzi fosse considerato suo figlio. Così si è chiarito il fatto: mi ero sbagliata a causa della mancanza di informazioni.

Si scopre dunque che il figlio di Luigi Lenarduzzi e Maria Bonin, rimasto coi nonni in Italia, raggiunse il padre in età adulta, si sposò creandosi una famiglia. Lavorò col padre alla costruzione e fu impegnato anche nella cinematografia con Bernardo Donatello, il fratello del famoso regista  d’Irkutsk Antonio Donatello. Anche questo caso ha dimostrato quanto sia importante avere contatti personali nello studio di alcuni fatti e soprattutto mi aiutò fornendomi copie dei contratti di noleggio di film e dell’affitto dei locali del cinema. Questo arricchì molto le mie conoscenze riguardo allo sviluppo della cinematografia nella  Siberia Orientale e nel Transbajkal.

Egli era già in pensione quando si recò in Siberia e visitò i luoghi in cui visse lo zio Francesco che era stato forzatamente separato dalla moglie Vera per quasi trent’anni. Si poterono riunire solo dopo la morte di Stalin.

In precedenza, visitando Venezia, non ebbi il coraggio di andare da sola al  cimitero di San Michele, mi spaventavano i neri cipressi le cui cime sporgevano dalle mura: così apparivano da lontano causa la stagione invernale. Avevo paura ad entrare da sola anche perché ovviamente d’inverno non c’era nessuno. Il buio giunge veloce e come un coperchio tutto ricopre…

Desideravo però tanto visitare le tombe dei famosi russi che hanno contribuito alla cultura russa e mondiale. Ero riuscita a convincere Atonia Dominco e la sua amica Rosa ad andare all’isola di San Michele visitandola senza soffermarci in altri luoghi. Poi, come al solito, a piedi abbiamo raggiunto la riva del vaporetto e quindi siamo ritornate a casa  con il treno, come sempre affollato. Passammo davanti alla chiesa dei Gesuiti che anche questa volta per qualche motivo era chiusa; volevo tanto vedere l’interno rivestito di marmo verde come fosse seta.

Questa volta i cipressi non sembravano più così neri, si presentavano più amichevoli per quanto tali alberi lo possano essere.

Sorse ora il problema di cercare le tombe di I. Stravinskij, S. Djaghilev, Josif Brodskij.

Davanti camminava un ragazzo con un mazzo di fiori gialli. “Ragazze – dissi – seguiamolo, sicuramente ci condurrà alla tomba di Brodskij”. Le mie compagne non erano d’accordo con me… una signora ci aveva detto di cercare nella parte ortodossa del cimitero.

Notai una segnalazione all’ingresso con una indicazione. Vidi la scritta “Ezra Pound” con aggiunta in pennarello “Brodskij”. Seguimmo l’indicazione.

L’addetto del cimitero aveva suggerito dove cercare la tomba di Igor Stravinskij. La trovammo immediatamente. Sulla lapide mazzetti di fiori e biglietti da visita tenuti fermi con dei sassolini. Anch’io lasciai il mio biglietto. Vicino c’era anche la tomba di Serghej Djaghilev.

In questa zona del cimitero hanno trovato ultimo rifugio  membri famosi di famiglie ducali; Bagrationi, Trubetskije, Beloselskij. Probabilmente sono venute dalle nebbie di San Pietroburgo  per trovare qui la salvezza nel sole e nell’aria marina. Triste comunque rimanere per sempre in terra straniera.

Finalmente trovammo la tomba di Brodskij con un mazzo fresco di fiori gialli. Avevo ragione nel pensare che il ragazzo andasse a trovare Brodskij. Devo  ammettere che tutti i fiori recisi e le piantine erano ben curati.

Era ora di andare a Palmanova, dove avrei dovuto incontrarmi coi parenti del fotografo di Irkutsk Giovanni Minisini  che dedicò a  Irkutsk  quasi quarant’anni della sua vita. Nel 1932 tornato in Italia, si stabilì a Palmanova dove aprì uno studio fotografico in via Borgo Udine 3. Non c’erano più i figli di Giovanni, ma mi interessava trovare i discendenti di Teresa Minisini, sorella di Giovanni.

Non sapevo con chi fosse sposata Teresa a Irkutsk. Nel 1923 Teresa tornò a casa col padre Giuseppe Minisini e portò con se due ragazze, Augusta e Maria Elena, che nacquero a Irkutsk. Non avrei saputo ciò se non fosse per un certo Dmitrij Molodzov che collaborava con una società del nord Italia. Dmitrij mi trovò tramite una compagnia televisiva  di Irkutsk.

Ho ricevuto una e-mail dalla pronipote di Teresa Minisini, nipote di Augusta, Maria  Chiara Zorzenon, che non conosce alcuna informazione del bisnonno. Teresa a Irkutsk era sposata con un certo Fedor Koslov, dal cui matrimonio nacquero due figlie.

Nel 1934 ebbero ultime sue notizie in occasione di una foto da lui inviata alla  figlia Maria Elena. Adesso  Maria Chiara mi ha chiesto di aiutarla nella ricerca del bisnonno. Fedor  Koslov ha ora 39 discendenti tra Italia e Francia, ma la ricerca di Fedor  Koslov in Russia è un’altra storia…

Maria Chiara  ed il marito Michele abitano vicino Palmanova in un piccolo paese e gestiscono l’azienda agricola “El clap”. Al mio arrivo Michele mi mostrò la stalla con novanta mucche, il deposito del fieno, i vigneti dove si raccoglie  il “verduzzo” e la piccola cantina dove “matura” il vino nuovo. Naturalmente subito chiesi il numero di dipendenti. Nulla di più di tutta la famiglia: Michele con la moglie, due suoi fratelli e la madre suocera di Maria Chiara. Assumono solo una decina di persone per la vendemmia e a gennaio una persona li aiuta con la potatura delle viti. Subito ricordai il Primo Ministro russo Arkadij  Stolypin agli inizi del secolo scorso. Le aziende di questo genere furono un suo sogno che mai si avverrò poiché disse che ci volevano vent’anni per poterle creare.

Maria Chiara mi mostrò le foto portate dalla Russia dalla famiglia Minisini e personalmente da Giovanni. Davanti mi apparse la vita di Irkutsk all’inizio del secolo scorso. Analizzando le foto ritrovai anche Viktor, il figlio adottivo di Giovanni Minisini, di cui nessuno sapeva nulla. Inoltre si scoprì una foto che ritraeva un’altro  Fedor  Koslov  omonimo dello zio; sul retro c’era scritto: “con amore alla zia Teresa dal nipote”.

Quando le foto vengono conservate negli archivi di famiglia, se ne conserva la loro storia.

Maria Chiara con entusiasmo si impegnò nella ricerca delle loro radici. Ancor prima del mio arrivo in Italia, si era recata a Parigi dove vivono dei discendenti di Maria Elena e aveva portato alcune copie di foto che hanno ampliato la mia conoscenza sulla vita degli Italiani ad Irkutsk.

Durante la seconda guerra mondiale accadde un’altra tragedia in famiglia Minisini: prima della vittoria del 5 maggio 1945 fu uccisa Teresa, la figlia dodicenne di Giuseppe Minisini, che era la pronipote di Giuseppe e nipote di Fedora Koslova. Ma questa è un’altra storia…

Visitammo gli archivi di Palmanova e recuperammo documenti sulla morte di Anna Minisini, sorella di Giovanni, anche lei sopravvissuta alla tragedia di Irkutsk (era stata arrestata dal NKVD).

C’erano anche documenti sulla morte di Giovanni e della moglie Jevdokija Kostilova. Ora tutti e tre sono sepolti nel cimitero di Palmanova.

Ci fermammo al Borgo Udine 3, dove un tempo c’era lo studio di Giovanni Minisini ed ora ha sede un’agenzia immobiliare.

Dietro l’angolo dello stesso edificio si udiva il rumore del bar dove passava il tempo Jevdokija e di un camioncino che le portava il giornale. Chissà cosa pensava stando lì: nostalgia di Irkutsk, pensieri per un figlio perduto o un velo d’odio che ha fatto guarire tutte le ferite! Chi lo potrà mai sapere… è stata fortunata solo in una cosa: non è stata toccata dagli eventi degli anni 30 come tante altre disgrazie che hanno colpito la Russia.

Tutto ciò che si poteva trovare a Palmanova, è stato esplorato. Rimanevano gli ultimi incontri importanti ad Udine, Buja, il lavoro in archivio e nelle biblioteche e le più importanti conferenze.

Per abitudine, quando arrivo in una città nuova, mi alzo di mattina presto, esco dall’albergo e faccio una passeggiata quando per le vie ci sono ancora pochi passanti e macchine.

La sera, davanti alle finestre dell’albergo notai, ma senza bene riuscire a definirlo, c’era un fiume o un canale dalle verdi acque. Mi chiedevo dove mai andasse a finire.

Dalle mappe della città che mi diede il portiere lessi che si trattava del fiume “Ledra”, ma non sapevo che fosse un canale artificiale costruito quasi contemporaneamente alla Transiberiana e messo in funzione molto più tardi.

Questo canale dava alla provincia ciò che mancava: l’acqua, che era anche stata una delle cause della partenza degli Italiani per l’estero. Inseguii invano il Ledra che improvvisamente scompariva ed altrettanto velocemente riappariva o sotto qualche terrazzino o dalle fondamenta delle case i cui ingressi sono collegati da ponticelli.

All’associazione “Friuli nel Mondo” ho incontrato gente del tutto nuova. Lì mi accolsero il presidente Giorgio Santuz ed il direttore Fabrizio Cigolot. Il direttore aveva organizzato un incontro con un  corrispondente del Messaggero Veneto, Alessandro Montello, che arrivò in albergo con un notebook col quale scrisse immediatamente tutto ciò di cui parlammo. Come possiamo chiamarli giornalisti moderni? Se un tempo si potevano dire virtuosi della penna, ora si possono chiamare virtuosi della tastiera.

Questa pubblicazione apparsa sul giornale, diede il risultato sperato da Fabrizio e come conseguenza  comportò un afflusso di persone presso la sede dell’associazione.

Mi commosse l’incontro con l’ingegnere tessile in pensione Romano Carlevaris che sta ancora raccogliendo materiale sulla storia della fabbrica e che durante la ricerca gli è capitato di trovare le pubblicazioni sugli Italiani in Siberia pervenute da giornali friulani di inizio secolo.

La maggior parte delle pubblicazioni era della contessa Pierina di Brazzà. Presso la biblioteca comunale, con l’aiuto della signora Marzia Di Donato, avevo trovato solo una pubblicazione della contessa: “Inverno a Irkutsk”.

Il signor Gianluigi Martinis mi portò un articolo sui nonni che lavorarono alla Transiberiana.

Maria Angela Toppazzini, presidente dell’Università della Terza Età, mi diede un opuscolo sulle attività dell’Istituto. Non posso pensarla come una coincidenza, ma si ritiene che la cugina della Pierina di Brazzà ne fosse la fondatrice… in realtà in tutto questo c’è qualche mistero! Maria Angela mi promise di trovarmi un ritratto della Pierina.

Una mattina il portiere mi avvisò che c’erano ad attendermi tre persone: Egidio Tessaro, Celso Gallina e  Romano Rodaro da Parigi, un francese di origine friulana.

Rodaro lo avevo già conosciuto a Irkutsk, ha più di settant’anni ma è ancora pieno di entusiasmo ed in continua ricerca di informazioni riguardo al suo antenato Luigi Giordani,  che non è mai riuscito a raggiungere le patrie coste poiché disperso nelle acque dell’oceano Indiano.

I suoi viaggi in Siberia, da tempo si sono trasformati in una “missione pubblica”. Lui ha stretto amicizia con una scuola in Buriazia, conosce persone e cerca di pubblicare articoli che trattano di incontri in Siberia.  Anche nel  maggio 2009 ci siamo nuovamente incontrati. Andammo sulla Krugobajkalka,  posammo sulla tomba di Gian Domenico, una lapide di marmo con la scritta: “Mandi Furlan”.

Con Celso Gallina avevamo già fatto conoscenza tramite posta elettronica. Con Gemma Minisini trovò informazioni sulla famiglia Minisini presso l’archivio della chiesa di Santo Stefano di Buja. Il terzo signore, Egidio Tessaro, non lo conoscevo, ma scoprii che conoscevo suo padre.

Chiesi dove stessero andando. Indicarono la strada verso la montagna. Ebbi la tentazione di fare una foto alle montagne dalla finestra dell’albergo in seguito fallita poiché si nascondevano sempre dietro la foschia. Così andammo a Buja che occupava costantemente i miei pensieri. Da questo paese non molti andarono in Siberia, ma è diventato strettamente legato a questa terra grazie alla famiglia Minisini ed a coloro che ancora stanno studiando la storia dell’emigrazione italiana.

Posso solo dire che tutto questo lavoro di ricerca si basa solo sulla gratuita iniziativa privata  a servizio della storia dell’emigrazione italiana.

Le montagne diventavano sempre più grandi. Mi ricordai di una foto del 1910 e dissi: “Voglio vedere il luogo dal quale fu scattata la foto”; si trattava di Ursinins Piccolo. Finalmente mi risposero: “Ecco, questo è il posto!” La strada passava ai piedi della montagna. Però come era cambiata nell’arco di cent’anni! Questo luogo era abbastanza deserto; a destra c’era un  muro in pietra che ora non c’è più.

Sulla seconda foto si vedeva una scritta “Fotografia Baldassi”. In mezzo alla strada c’era un ragazzo di circa dodici anni. Egidio Tessaro disse: “il ragazzino è mio padre e Baldassi è lo zio”. Di conseguenza Egidio risulta il nipote del famoso fotografo Baldassi. Ma neanche Tessaro aveva cambiato la professione dello zio. Dove c’era lo studio dello zio adesso c’è l’ufficio di progettazione di Egidio che si impegna attivamente nel campo della fotografia. La foto a Egidio fu scattata nello stesso luogo dove fu scattata al padre. Ma questo posto adesso mi aveva messo tanta  tristezza, era deserto c’eravamo solo noi.

Guardando e analizzando la foto sembrava che la vita sulla strada fosse movimentata. Alcune persone erano radunate vicino alla fontana affiancata allo studio Baldassi.

Attraverso strade ripide salimmo sulla cima della collina dove si trova la chiesa di San Lorenzo. Dopo averla visitata, Tessaro mi mostrò la vista della valle che  mi impressionò nuovamente.

In Monte di Buja si svolgeva una festa organizzata da “Chei di Ursinins Pizzul” assieme ai loro amici bresciani che aveva riunito molte persone. Erano  arrivati anche Maria Chiara e Michele. Romano Rodaro con l’aiuto di Maria Chiara aveva aperto e disteso due bandiere russe.

Dopo la festa a Buja si ripresero le giornate lavorative. In archivio a Udine non trovai materiale riguardo l’emigrazione in Siberia. Nella biblioteca comunale avevo dato un’occhiata a tutto il materiale sulla emigrazione ed avevo trovato un saggio “Il sogno di un mulo” o meglio ricordi di emigrazione di Lodovico Zanini, che erano riportati  in tre numeri della rivista “La Panarie” del 1929. Si scoprì che fin dall’infanzia (questo ero il solito destino dei ragazzini friulani) moltissimi viaggiavano con le loro famiglie per il lavoro stagionale all’estero.

Il 24 ottobre c’era la conferenza a Buja. In mattinata con Romano Rodaro andammo in  montagna perché, prima della conferenza, bisognava visitare qualche luogo. Prendemmo la direzione  per Gemona vicino alla montagna San Simeone. In questo punto, tra le montagne San Simeone e Amariana, ci fu l’epicentro del terremoto del 1976 che portò via le vite di quasi mille persone.

Solo ora ho capito il significato delle strisce rosse su alcuni edifici: segnano il limite oltre il quale  l’edificio è stato distrutto. Il campanile del Duomo era stato quasi tutto distrutto ma ora è stato riportato allo stato iniziale. Il Duomo è rimasto intatto, salvato da San Cristoforo recante in braccio il bambino Gesù e la cui enorme figura adorna la facciata stessa.

Il responsabile della biblioteca di Gemona, mi mostrò i libri rari conservati nella cassaforte. Sono libri di flora, storia, geografia di quei tempi, libri che farebbero onore a qualunque  biblioteca del mondo.

Ci incontrammo anche con il sindaco di Buja,  Luca Marcuzzo, che ci fece una presentazione delle scuole elementari e medie di Buja, situate in edifici a sé stanti, mentre la scuola materna ha anche uno sbocco sul cortile.

Dopo l’incontro col sindaco, Romano Rodaro organizzò per me una gita a Venzone, paese profumato di lavanda, infatti questa è zona di lavanda ed esiste anche un negozio dipinto in tonalità lilla e viola che vende tutto ciò che può essere associato con la lavanda.

La mia attenzione non tralasciò le figure di gatti presenti alle  finestre. Accanto ai gatti c’erano anche le zucche. Venzone si stava preparando alla tradizionale “Festa della Zucca”. Chiesi ai miei compagni perché gatti e zucche, ma loro non seppero rispondermi. Andammo anche al Duomo di San Andrea, dove si trovava una scultura bellissima ricavata dal resto di un tronco d’albero colpito da un fulmine e dedicato alle vittime del terremoto, basato sul salmo “De Profundis”.

Dopo aver visitato il Duomo cenammo in una trattoria dove tutti i piatti erano a base esclusivamente di zucca così come la grappa… ne assaggiai solo un goccio di questa, come noi diciamo, “strappa occhio”.

Volevo quasi fermare i passanti per farmi dire perché i gatti e le zucche. I gatti bianchi e neri che vedevo attorno, somigliavano molto alla mia gattina siberiana… finalmente il proprietario della trattoria mi svelò il  dilemma che mi ero posta: “i topi mangiano le zucche, ma i gatti mangiano i topi”… oltre la lavanda qui stanno coltivando anche le zucche. Le sagre da queste parti sono collegate ai frutti che la terra produce.

Ricordo che per le vie di Udine c’era l’annuncio della sagra “Sapore di castagne” a Montenars che si trova vicino a Venzone e che avevo già visto dalla collina di San Lorenzo.

Ricordo inoltre di aver trovato lungo la strada per Venezia  la sagra del “Pane e Formaggio” di Portogruaro. Antonia Dominco propose in quella occasione di passare attraverso il paese  per vedere una chiesa con splendidi affreschi e così ci trovammo in mezzo ai festeggiamenti con musica tutta attorno. Si  sentiva un intenso profumo di pane e sotto un tendone in mezzo alla piazza c’erano dei panettieri e tanto pubblico… alcuni impastavano, alcuni stavano tagliando il dolce rotolo con ripieno, alcuni sfornavano pane e focacce. Tutto attorno la gente  che osservava il loro lavoro: alcune persone si stavano allontanando con sacchetti pieni, altre attendevano il proprio turno.

Sotto un altro tendone più piccolo, c’era la presentazione dei formaggi. Notai un formaggio con un nome strano, il formaggio “ubriaco” che presentava una crosta nera e solo dopo seppi il perché fosse ubriaco e dove fosse andato ad ubriacarsi. Invidio questa abbondanza di sagre così familiari e serene che si rivolgono all’anima umana. Che senso c’è nella festa russa “la giornata del carrista”?

In piazza i bambini erano vestiti con costumi tipici popolari, si facevano cesti, vicino un mulino che sembrava un giocattolo macinava il grano: la sua ruota antica lentamente girava sulle acque di un  ruscello. Per la conferenza di Buja c’erano ancora due ore.

Tornai un’altra volta sulla collina di San Lorenzo, mi accostai al parapetto e lì rimasi per circa un’ora guardando la vallata… mi sembrò di parlare con le ombre di coloro che, partiti cent’anni fa, non avrebbero immaginato come sarebbero cambiati i loro destini ed il cui monumento eterno si sarebbe materializzato nella ferrovia di Krugobajkal!

Nella mia mente si riproponevano tutti i nomi, cognomi e i racconti dei loro discendenti e di come li ricordavano. In quel momento, non sapevo che mi avrebbe cercato la nipote di Giovanni Daniele Toneatti da Clauzetto, che lavorò a Bolsciaja Sciumicha vicino al lago Baikal. Questi ebbe un figlio ed una figlia che nacquero a Irkutsk. Giovanni morì nel 1912 e mai più tornò in Italia. In Kuban a Eysk, vive la nipote Tatiana che è alla ricerca delle tracce del nonno.

Per  qualche ragione mi ricordò mio  padre così prematuramente scomparso. Non fu una vittima della guerra, ma  di un lavoro duro e logorante, quello di geologo, aggravato dall’utilizzo di attrezzature non agevoli. Ci lasciò ancora piccoli… c’era qualche cosa in comune tra il suo destino e quello degli Italiani siberiani.

Qualcuno crede seriamente nella reincarnazione, però questo risulta difficile per  me che essendo scettica mi fido solo dei documenti, dei fatti accaduti e della scienza.

Seduta sul parapetto sopra la valle, mi sembrò di essere tornata nella mia infanzia su una collina rocciosa del sud del Transbajkal. Mi piaceva salire in cima, trovare un buon posto per sedermi e restare ore sotto quella volta Buja dello spazio sovrastante. In quel momento mi sembrò di vedere altre valli dove trascorsi l’infanzia… forse l’avevo vissuta qui? Come spiegarsi altrimenti tanta familiarità con questi luoghi, l’andare d’accordo con le persone del posto e condividere le cose che abbiamo in comune?

La conferenza si tenne nella biblioteca di Buja. Dalle pareti mi guardavano persone che conoscevo. Mi venne improvvisamente un brivido vedendo la mia immagine dalla foto.

Celso Gallina, Gemma Minisini, Egidio Tessaro e Romano Rodaro si erano ben preparati per l’occasione: Romano aveva portato una mappa del Krugobajkal con evidenziati i luoghi dove lavorarono gli Italiani, un pezzo di rotaia dalla Siberia, un samovar russo, Egidio aveva allestito una vera mostra fotografica e Celso esponeva il prezioso “Manuale del Parrocchiano di Buja” sul quale, presso la stazione Mysova, Luigi Giordani nel Capodanno del 1900 lasciò un messaggio di speranza per tempi migliori.

Tutte le conferenze si somigliano. Per me il momento più bello venne dopo, perché fui circondata dai discendenti di quegli Italiani. Una signora disse che su di una foto ritraente tre operai aveva riconosciuto il nonno Pietro Forgiarini. Un’altra persona mi regalò la copia del visto di ingresso per lavoro in Russia col timbro della stazione di polizia di Irkutsk. Impossibile raccontare tutto ora, bisogna scrivere un libro.

Il ritorno fu segnato dalla pioggia. Decollando dall’aeroporto Marco Polo tra le gocce sul vetro seguii il rapido allontanarsi del panorama marino e ripensai alle brave persone incontrate in Friuli. Chissà se ci vedremo ancora? Ma l’anima si riempì di gioia per aver ritrovato nuovi fatti, nuove storie e nuovi documenti.

Tutto questo non andrà dimenticato…